Africa
 

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Diario da Tanzania e Zanzibar
Un viaggio in est Africa

di Marco Pontoni

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L'Africa cambia lentamente, ma cambia! Che le mie nozioni sul Continente cosiddetto "nero" (ma io l'associo al rosso, il colore della terra e della polvere che si alza dalle sue strade) avessero bisogno di qualche aggiornamento ho cominciato a capirlo quasi subito, a molte ore di volo dalla capitale "ufficiosa" della Tanzania, Dar Es Salaam (quella ufficiale è Dodoma, però è Dar, assieme ad Arusha e a Zanzibar, l'approdo abituale dei viaggiatori). Si discuteva, io e i miei occasionali compagni di viaggio, dei villaggi ujamaa, sorta di isole agricole comunitarie che, se ben coordinate dal governo centrale, avrebbero dovuto costituire le basi su cui edificare il progresso del paese, arginando al tempo stesso i processi di urbanizzazione selvaggia così frequenti nel Terzo Mondo. Ciò almeno nelle ottimistiche previsioni formulate all'indomani dell'indipendenza, quando il non-allineamento era una realtà e molte nuove nazioni si affacciavano sulla scena mondiale coltivando idee di sviluppo "diverso" rispetto ai modelli prefabbricati forniti dall'Occidente e dal comunismo d'impronta sovietica. Ma l'indiano seduto alla mia sinistra nicchiava; dopo un po', come se nulla fosse, ha cominciato a descrivermi con dovizia di particolari il suo ben avviato business con l'Europa, un import-export di refrigeratori. Cercai sostegno presso il giovane bantu alla mia destra, che studiava in Inghilterra e vestiva come un diplomatico. Ma quello, per tutta risposta, ha liquidato i miei discorsi con un'ironica alzata di spalle.
"Old stuff", ha riso, roba vecchia.
"Perché? Non ha funzionato?".
"Ha funzionato, sì, my friend. Per due settimane".
Eppure, pensavo, mentre i possenti reattori British Airways ci portavano sulle correnti, sopra il tetro Sudan, i principi enunciati da Nyerere nella dichiarazione di Arusha (1967) hanno rappresentato, all'epoca, un ideale suggestivo, al quale sembrava potesse valere la pena di sacrificare anche qualche garanzia democratica (peraltro assente in quasi tutto il continente africano). Niente da fare, signori, il popolo ha voltato pagina. Oggi in Tanzania c'è il libero mercato, l'opposizione, ancorché divisa in mille partituccoli, ha i suoi giornali, e la gente beve finalmente Coca Cola, Sprite, Stella Artois. Anche per questa parte di mondo, insomma, il futuro è incerto, eccitante e tutto da inventare.
Riva d'Africa. Fresco di una laurea in Scienze politiche, avevo scelto la Tanzania come meta del mio primo viaggio in Africa perché curioso di vedere che cosa fosse rimasto, dopo il crollo del Muro di Berlino e gli altri sconvolgimenti con cui si è aperto l'ultimo decennio del XX secolo, di quelle parole d'ordine, perché tali suonano oggi, nella loro astrattezza così come nella loro indubbia carica utopica, capaci di mettere d'accordo sia chi era mosso da carità cristiana (non a caso sul suolo tanzaniano i missionari abbondano), sia i neo-marxisti ostili all'Urss, alla sua ossessione per l'industria pesante, le bombe atomiche, in definitiva il suo imperialismo. Parole d'ordine come "autosviluppo", self reliance, sviluppo "diverso". Raggiunta l'indipendenza nel 1961, praticamente senza sparare un colpo, l'ex colonia britannica del Tanganika, grazie all'abile guida di Julius Nyerere, un leader molto stimato anche in Occidente, sembrò trovare all'epoca le risposte che cercava in una specie di versione africana di "via cinese al socialismo": partito unico, sindacati posti sotto controllo governativo, mano tesa ai movimenti di liberazione nazionali dei paesi vicini (in testa l'Anc di Nelson Mandela), ma soprattutto, enfasi sulla terra, la prima e principale risorsa dell'Africa rurale. Pietra angolare di questo programma, definito di self reliance, per l'importanza del concetto di "farcela con le proprie forze", anziché ricorrere indiscriminatamente agli aiuti internazionali, la diffusione su tutto il territorio dei villaggi ujamaa, per la realizzazione dei quali si ricorse anche alle deportazioni forzate dei contadini, e all'imposizione di un comunitarismo di fatto completamente fallimentare.
La self reliance fu, a suo modo...
...>> segue