Africa
 

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seconda parte
Diario da Tanzania e Zanzibar
Un viaggio in est Africa

di Marco Pontoni

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La self reliance fu, a suo modo, un'idea nobile e generosa. Ma chi si aggira oggi (1993 n.d.r.) per le strade di Dar Es Salaam ha l'impressione di trovarsi in un altro paese. Se le povere librerie espongono ancora, assieme ai testi scolastici mezzo mangiati dall'umidità, testi dal chiaro orientamento ideologico, sulle facciate dei grandi palazzi del centro leggo le insegne di tutte le maggiori società mondiali, Olivetti compresa. Tuttavia c'è qualcosa di entusiasmante in un paese giovane (anche anagraficamente, le strade pullulano di ragazzi disoccupati che salutano con il "Jambo", l'allegro saluto swahili), senza dogmi da osservare ma aperto, pur con qualche ingenuità, al nuovo, un paese ricco di storia, di bellezza. Se in Italia in molti oggi inseguono l'ambiguo concetto della "normalità" ("un paese normale", "un partito normale"), questa sembra essere, a tutti gli effetti, un'Africa appunto "normale", senza stragi etniche, senza carestie devastanti, ma in compenso con "normali" strade piene di buchi, luce e acqua che "normalmente" vanno e vengono, "normale" economia informale.
Dar Es Salaam è un mosaico di fisionomie e di religioni, dunque è un po' lo specchio del paese. La domenica spio le famiglie indiane, avvolte in vesti colorate, che si recano al tempio indù, gli arabi che pregano nelle loro moschee, costruite accanto alle gioiellerie che gestiscono da sempre, i funzionari delle ambasciate e delle agenzie Onu che giocano al golf nel Gymkana club (e s'incazzano se li distrai). I giovani neri riempiono discoteche che aprono nel primo pomeriggio e chiudono a notte inoltrata. Sudore e vapori di birra Safari. Poca nostalgia di quando gli strumenti non erano amplificati, e ogni passo aveva un senso.
In città le razze si sfiorano, ma non si mescolano. Il bisogno di preservare la propria identità mi sembra essere più forte, pur non dando origine ad atti di intolleranza veri e propri. La costa orientale dell'Africa è sempre stata un crocevia di commerci, ed i contatti delle popolazioni rivierasche col mondo precedono di molti secoli l'arrivo di Vasco da Gama e degli altri esploratori europei. Oggi una nuova specie umana si unisce alle tante già presenti, quella del giovane ricercatore, uscito da qualche università europea o americana con buone referenze e una borsa di studio. Ne incontro una folta delegazione alla Luther House, che ospita i viaggiatori "fai da te" per una cifra irrisoria, in camere spartane. Sono dottorandi tedeschi, chi aspirante antropologo, chi storico del colonialismo, chi linguista. Nei loro confronti nutro sentimenti contrastanti. Da un lato, come ogni viaggiatore desideroso più di ogni altra cosa di fare conoscenza con i "locali", la loro presenza mi infastidisce. Dall'altra, apprezzo la loro preparazione, le loro motivazioni, e talvolta l'intelligenza di certe analisi. E' strano: chi, in patria, si dichiara favorevole alla società multirazziale, all'estero, e in particolare in questi paesi "esotici", talvolta pretende poi che tutto rimanga intatto, o addirittura "incontaminato". In realtà non esistono culture vergini, meno di tutte quelle africane.
L'isola dei tesori
Zanzibar dista dal molo di Dar tre-quattro ore di battello. Durante il viaggio hanno proiettato un film di avventura, una produzione asiatica densa di ultraviolenza, con sbudellamenti e teste che saltano. Tutti stanno a guardare divertiti, ma quando arrivano le scene d'amore, caste, solamente l'eroe e l'eroina che si baciano, in piedi, vestiti, le donne si coprono gli occhi e gli uomini non sanno che faccia fare. Vedere le cose per le quali la gente s'imbarazza o si scandalizza è un bel modo di viaggiare e di cogliere la distanza culturale. Zanzibar è un'isola al 99% musulmana, di setta ismailita (il capo religioso è l'Aga Khan), e conserva il ricordo dei fasti passati. Zanzibar si è federata al Tanganika nel 1964, dopo che un colpo di stato ha posto fine al sultanato, e quindi al predominio degli arabi omaniti, che qui fondarono un impero economico, facente perno sulle spezie e gli schiavi. La Stone Town, o città di pietra, è davvero qualcosa di speciale per l'Africa: il centro un dedalo di viuzze che si scavano il passaggio fra case a più piani, dai portoni delicatamente intarsiati, che restituiscono agli europei le immagini  intraviste sui libri di Salgari. Ad ogni angolo ci sono botteghe, a celebrare l'amore tutto arabo per la compravendita ed insieme il disprezzo per il lavoro manuale, che in passato spettava infatti ai neri catturati sul continente, che transitarono di qui a migliaia, e che a migliaia vennero deportati nelle altre isole dell'oceano indiano e anche nella penisola arabica. "Tutti gli adulti - scrive Livingstone, l'uomo che avrebbe aperto le porte dell'Africa centrale alla cosiddetta "civiltà", parola che all'epoca faceva rima con quella di "libero commercio" - sembrano vergognarsi di essere messi in vendita. Si osservano attentamente i denti, si sollevano le vesti per esaminare meglio gli arti inferiori, e si dà allo schiavo un bastone da impugnare per vedere meglio come cammina...". Stanley non aveva gli stessi scrupoli morali (mise le sue conoscenze al servizio di uno dei tiranni più feroci che l'Africa abbia mai conosciuto, re Leopoldo II del Belgio), ed è per questo che in tutti i musei della Tanzania, a paragone di Livingstone, ci fa una pessima figura.
Le guide turistiche non segnalano come degni di nota i quartieri nuovi di Zanzibar, abitati dai zanzibarini meno abbienti. Ci sono andato con un matatu, uno dei taxi collettivi pieni fino all'inverosimile, per visitare una balera assolutamente off the tracks. In pista, tanti ragazzi e nessuna donna, musica reggae e tarab, il solito aspirante businnesman in erba che non si lascia sfuggire l'occasione di attaccare bottone con il mzungu (il bianco, ovvero, mi spiegano, "quello che ha sempre la testa fra le nuvole"). Le proposte d'affari sono una delle prime cose con le quali il viaggiatore europeo deve imparare a fare i conti. Anche quando, come il sottoscritto, nutre ancora la speranza che "sviluppo diverso" sia più di uno slogan, anzi, che proprio in paesi come questo si possano  percorrere strade nuove. Per esempio: laddove i costi di un'elettrificazione diffusa sembrano insormontabili, il ricorso all'energia solare potrebbe forse rappresentare non una soluzione un po' snob ma un'alternativa vantaggiosa ed economicamente compatibile. O laddove importare petrolio significa creare nuove forme di dipendenza, sfruttare le biomasse (come, facendo di necessità virtù, hanno sperimentato i cubani, riciclando gli scarti del raccolto della canna da zucchero) potrebbe consentire di coniugare ecologia e bisogni sociali.
A mezzanotte torno alla Stone Town a piedi (non c'è rischio, non siamo né a Miami né a Rio). Improvvisamente, contemplando la fioritura surreale di cemento armato sotto la volta stellata, scopro di essere alla periferia di Berlino, ma una Berlino degradata, fatiscente, con le facciate delle case corrose dalla salsedine. "Ma no", mi spiegano i miei amici il giorno dopo "quelli che hai visto sono solo i palazzi fatti costruire dalla Ddr, in nome della solidarietà internazionalista".
I parchi del nord...

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