LUganda è Lex-gioiello dellimpero
coloniale britannico, ma raramente ha conosciuto
una vera pace. Anche se gli anni 70, caratterizzati
dalla feroce dittatura di Idi Amin, sono ormai lontani,
la situazione è ancora incerta.
Così,
ad esempio, monsignor John Baptiste Odama, arcivescovo
di Gulu, capoluogo dellomonimo distretto nord
ugandese, ha commentato larrivo, ai primi
di luglio, del numero uno della Casa Bianca in Uganda,
penultima tappa di un breve tour africano: "Il
presidente degli Stati Uniti deve sapere che lUganda
non è un Paese dove regna la pace: la zona
settentrionale è scossa da violenze e combattimenti
e nella agenda di George W. Bush non possono figurare
solo temi quali lAids o la lotta al terrorismo".
Il riferimento è alle violenze dei ribelli
del sedicente Esercito di resistenza del signore
(LRA) di Joseph Kony, appoggiato dal governo sudanese,
che combatte da 18 anni una guerra ad oltranza contro
le truppe governative. Una guerra che comporta il
rapimento dei bambini - oltre 20 mila finora, arruolati
forzosamente nelle fila della guerriglia - e che
ha generato ben 850 mila sfollati Il governo del
presidente Yoweri Museveni, giunto al potere nel
1986, ha cercato faticosamente di riportare la stabilità
politica e sociale, nonché di ripristinare
le istituzioni democratiche (risale al 1994 lelezione
dellAssemblea Costituente che ha successivamente
elaborato la nuova costituzione ugandese, ed al
1996 lelezione del Presidente della Repubblica
e del Parlamento. Ultime presidenziali: marzo 2001).
Tuttavia vaste aree del paese non sono ancora state
"normalizzate". Inoltre lUganda
è stata recentemente coinvolta nella guerra
del Congo-Zaire, combattuta essenzialmente per il
controllo delle enormi ricchezze del paese.
La Karamoja Ho visitato recentemente il
paese assieme ad una delegazione trentina, volata
laggiù per monitorare le attività
di cooperazione allo sviluppo svolte da alcune Ong
e associazioni umanitarie. Volando da Kampala, la
capitale dellUganda, verso la regione della
Karamoja, nel nord-est, la savana sotto di noi appare
insolitamente verde. Il fatto è che da poco
ha finalmente piovuto, dopo tre anni di siccità.
Così, ora il raccolto di sorgo, lunico
cereale in grado di crescere su questa terra arida,
fa ben sperare. Atterriamo a Moroto, il principale
centro amministrativo. Qui in verità non
cè aeroporto né controllo di
dogana. Solo una pista sassosa nel cuore della solitudine,
e due suore che sono venute a prenderci con un vecchio
pulmino. La
Karamoja è abitata da una popolazione di
pastori seminomadi, di origini nilotiche. La visitò
Moravia in uno dei suoi innumerevoli viaggi africani,
nel 1971; e la descrizione che ne dà in un
capitolo del suo A quale tribù appartieni?
non è molto diversa dallaspetto che
la regione ha attualmente. Ragioni culturali - in
particolare labitudine di razziare il bestiame
altrui - ma anche la classica insofferenza delle
popolazioni nomadi verso ogni forma di controllo
spiegano il conflitto che oppone da sempre i Karamojong
alle popolazioni vicine (come i Masai del confinante
Kenya) e al governo centrale, e i frequenti scontri
interclanici. Ma se una volta larma era la
lancia, ora è il mitra. I volontari che incontriamo
sono in Karamoja dal 1989: vengono in 20-30 alla
volta, in genere fra febbraio e marzo, molti prendendo
ferie. Si fermano chi due settimane, chi un mese
o più, e costruiscono un pezzo di scuola,
un laboratorio, uninfrastruttura che manca
o cade a pezzi.
Andiamo al locale assessorato alleducazione.
Paul Abul, il suo responsabile, ci spiega che solo
12 abitanti su 100 sanno leggere e scrivere. Ma
è alla Casa delle suore di Madre Teresa che
la povertà di questa regione ci colpisce
come uno schiaffo. Decine di persone, soprattutto
donne, anziani, bambini, fanno la fila per ricevere
la loro razione settimanale di cibo, donata dagli
organismi umanitari. Attualmente, ci spiega Lorenzo
Giacomoni, che ci fa da guida, vengono assistite
così quasi 200 persone.Più in là,
lorfanotrofio, che comprende anche un asilo
nido e delle aule scolastiche. Non tutti i bambini
sono veramente senza genitori: molti vengono abbandonati
perché le famiglie non possono sostentarli,
come succedeva un tempo ai nostri "esposti".
Ma Moroto ha anche un altro volto. Quello del Seminario
di Nadiket, ad esempio. O quello della scuola di
Naoi - con annessa falegnameria e fabbrica di mattoni
- che i volontari trentini vorrebbero ampliare,
con il sostegno della Provincia. Attorno montagne
basse, e savana a perdita docchio. Un paesaggio
affascinante, che mi piacerebbe splorare. Ma la
zona è pericolosa. Solo una settimana dopo
la nostra visita due missionari verranno uccisi,
poco a nord di Moroto.
Arua e il West Nile Voliamo dallaltra
parte del paese, oltre la strada azzurra tracciata
sulla savana dal corso del Nilo, che lentamente
risale il continente alla volta del Mediterraneo.
Fino ad Arua, capitale del West Nile, quasi al confine
con la Repubblica
democratica del Congo e il Sudan.Allaeroporto
di Arua troviamo ad attenderci i responsabili dellAcav,
unaltra Ong trentina, assieme alle autorità
locali, guidate dal presidente del Distretto Andama
Ferua, e alla banda cittadina. Arua è una
città di discrete dimensioni, con una bizzarra
traccia del passato coloniale: un campo da golf
con perfetto prato allinglese. Cè
anche un mercato splendido, dove si può trovare
di tutto: cibo, vestiti, stoffe dal Congo, e poi
ferramenta, pezzi di motore e di bicicletta e quantaltro.
Arua ha dato i natali a Idi Amin, il dittatore morto
proprio lo scorso agostoin esilio a Gedda, Arabia
Saudita. Amin era di umilissime origini ma di stazza
imponente: fu "allevato" in seno allesercito
coloniale britannico negli anni che precedettero
lindipendenza, per poi prendersi il potere
nel 1971, con un colpo di stato. Sostenuto da libici
e sauditi, nel 1979 venne cacciato dai tanzaniani
e dovette abbandonare il paese, lasciandosi alle
spalle qualcosa come 300.000 mila morti. In questa
regione sono stati realizzati diversi progetti nei
settori dellacqua, della scuola e formazione
professionale, della sanità, dellagricoltura,
dellassistenza ai profughi. Visitiamo alcuni
dei frutti di questi sforzi. Dopo i saluti del sindaco
Thabit Khalfan, raggiungiamo lo Health Centre -
Centro Salute "Città di Trento",
inaugurato nel 1998. Questo dispensario, comprendente
reparti di maternità e ostetricia nonché
ambulatori per visite e analisi, assiste mensilmente
circa 1.500 mamme e 1.300 bambini, e svolge un doppio
ruolo, interno ed esterno. Da un lato, quindi, cura
le madri e i bambini, se necessario anche ricoverandoli
(i casi più frequenti di malattia fra i bambini
sono quelli di dissenteria e di malaria, che viene
curata con flebo di clorochina); dallaltro
svolge tutta una rete di attività altrettanto
importanti sul territo rio:
assistenza domiciliare, campagne di vaccinazione
o di prevenzione, persino leducazione sessuale
e la contraccezione (che significa anche prevenzione
nei confronti dellAids). In Uganda le strutture
private - comprese quelle dei centri missionari
- si integrano con quelle pubbliche."Nei villaggi
- spiega il dottor Armando Borghesi, 12 anni di
Uganda alle spalle - la gente viene innanzitutto
in contatto con alcune figure della cosiddetta medicina
tradizionale: la levatrice, lo stregone, il medico-guaritore,
che conosce luso delle erbe e altre pratiche
tradizionali come le scarificazioni o lespianto
dei denti, che spesso provocano infezioni mortali.
In seconda battuta cè il dispensario,
dove di solito non ci sono medici, ma infermiere
diplomate - in grado di fare anche piccole operazioni
- e a volte lostetrica. Il terzo livello è
lospedale, che a sua volta può essere
pubblico o privato. In genere nellospedale
pubblico lassistenza medica è gratuita,
ma il paziente deve procurarsi le medicine e il
cibo. Questo spiega perché fuori dagli ospedali
africani spesso ci sia una folla di persone che
cucina su piccoli fornelletti o lava e stende i
panni: sono i parenti del malato, che provvedono
alle sue necessità. Per i più poveri,
lospedale gestito dai missionari è
sempre aperto". Sempre ad Arua è attivo
da tre anni il centro di formazione professionale
di Ma Ecora ("Insieme possiamo farcela"),
sorto con il concorso di aiuti pubblici e privati.
Centinaia di giovani - soprattutto profughi dalla
Repubblica democratica del Congo - sono passati
per i suoi laboratori di falegnameria, carpenteria,
taglio e cucito, ma anche di computer, lingua inglese
e attività artistiche, trovando poi un lavoro.
Ora però le iscrizioni sono troppe e la struttura
scoppia. Per questo si è deciso di costruire
un nuovo e più grande centro.Il pomeriggio
è dedicato allacqua. In due villaggi
ad unora di macchina circa da Arua, Koboko
e Dranya, assistiamo allinaugurazione di due
pozzi. Il primo, servirà 2.400 persone, il
secondo 2.600, più tutte le persone di passaggio.
E lacqua, qui, nella savana, è vita.
Serve per bere, per cucinare, ma anche per far funzionare
i servizi igienici. Per averla, spesso le donne
(o i bambini) devono fare ore di cammino. Entrambi
i pozzi sorgono vicino a complessi scolastici; la
loro manutenzione sarà assicurata dalla gente
del villaggio tramite unautotassazione. Ma
dove conservare il denaro? "Servirebbe una
cassaforte" dicono a Koboko. È il caso
di dire che lAfrica riesce sempre a stupire.In
entrambi i villaggi lincontro con le autorità,
gli studenti, la gente, avviene allombra di
un albero di mango. Laccoglienza è
quella che ormai conosciamo: calda, commovente,
fatta non solo di discorsi ma anche di musica, di
danze.
Kampala Lasciamo Arua sotto la pioggia e
su un aereo più affollato del previsto (dando
"un passaggio" a quattro viaggiatori che
devono raggiungere la capitale). Ma prima riusciamo
a salutare larcivescovo Federico Drandua,
e a incontrare i bambini dellorfanotrofio
dellarcidiocesi. Nella città di Arua
i sieropositivi o malati di Aids sono circa il 20
per cento della popolazione; nelle aree rurali la
percentuale si abbassa ma il numero degli orfani
è comunque altissimo. "Qui il pane è
assicurato - ci spiega larcivescovo - ma è
difficile garantire a questi bambini e bambine unistruzione,
se non se ne fa carico qualche parente". Ecco
perciò la richiesta di un sostegno per fornire
agli scolari libri, quaderni, divise, insomma lindispensabile
per poter frequentare una scuolaNel pomeriggio raggiungiamo
Kampala. È una grande città, distesa
su sette colline, interessante e piena di traffico,
con tutte le contraddizioni delle metropoli del
Terzo Mondo. I quartieri delle ambasciate e degli
alberghi da un lato, le baraccopoli dallaltro.
Molte moschee e proprio nel centro, vicino allo
stadio, anche un grande tempio indù (gli
asiatici sono la spina dorsale delleconomia;
Amin li cacciò brutalmente, ma poi molti
sono rientrati).Visitiamo Mulago, una baraccopoli
alla periferia di Kampala in cui vivono anche molti
rifugiati. Le condizioni sono miserrime, eppure,
miracolosamente, tutto sembra funzionare, rispondendo
ad una logica interna che noi possiamo solo intuire.
Cooperanti e religiosi ci raccontano storie di rapine
a mano armata subite in pieno centro. Eppure, tutti
sono concordi nel dire che un tempo era molto peggio.
Lultima immagine dellUganda sono le
sorgenti del Nilo, a Jinjia, una delle principali
città del paese, a circa unora di macchina
da Kampala, su una buona strada asfaltata. Il fiume
esce dal Lago Vittoria formando delle rapide. Nella
luce incerta del tramonto, il paesaggio è
aspro e magnifico.
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