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Viaggio
nel Gabon - Ricordo di Albert Schweitzer
2/4
di
Diana Pasetti
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C'era una sola hostess
a bordo, tanto anziana e premurosa da sembrare una zia. Arrivava ogni
tanto offrendoci panini imbottiti come se fossimo ad una scampagnata
e del caffè tenuto caldo in termos. John ed io detestiamo il caffèè.
Sandro ne beveva a litri.
Aprì definitivamente gli occhi all'improvviso, abbagliata più
dalla luce che dall'ennesimo sussulto. Guardai fuori dell'oblò
pronta a rituffare gli occhi nell'intensità azzurra del cielo
invece sotto a noi si presentava un mare di fitta vegetazione.
Un fiume largo tagliava la giungla in due come una lunga ferita. Stavamo
scendendo e man mano che l'aereo si avvicinava nuovamente alla terra
s'intravedevano delle case basse costruite ai bordi del fiume. Sul di
esso galleggiavano piccole imbarcazioni in movimento. Poi proprio sotto
di noi, una striscia d'asfalto, la pista d'atterraggio.
Un'altra nazione ci attendeva, il Gabon. Un mondo di cui a malapena avevo
sentito parlare, ma la sua capitale aveva un nome che da solo, mi riempiva
d'entusiasmo: "Librevolle" Città libera.
Il volo era così giunto alla sua conclusione. Avvicinandomi con
gli altri all'uscita rabbrividì un attimo, colta da un senso di
vertigine, nel vedermi posta così in alto dal suolo.
Sotto di noi, degli uomini dalla pelle nera come il carbone, stavano
già avvicinando una scala stretta e ripida, da incollare alla
porta del velivolo. Tutto era così nuovo per me. L'informazione
non era come oggi, a portata di mano, ma tutta da scoprire e sulla propria
pelle.
Aprirono il portellone e un'aria piacevolmente calda e umida mi accarezzò
il viso.
Ancora una volta mi trovai nella difficoltà del mio compito quale
collaboratrice nel trasporto del baule.
La discesa dal velivolo si presentava ben più ardua della salita.
Uno scalino per volta ed un padre brontolone: "Non così non lo
strusciare .Alzalo ti dico.."
In basso, sotto l'apparecchio ci aspettava un nugolo di negretti festosi.
Era raro l'apparire di un aereo della Croce Rossa da quelle parti, e
suppongo ancor più raro vedere un gruppetto di "bianchi" arruffoni
e disastrati intorno ad un baule di legno trascinato per le cinghie.
"Un cadeau pour nous?" Un regalo per noi?
Sulla pista la pancia dell'aereo fu nuovamente aperta e le casse, contrassegnate
da una croce, scaricate e portate velocemente su alcune Jeep venute a
riceverci.
Anche noi fummo letteralmente caricati.
Non so quanta polvere mangiammo su strade sterrate, mentre lo stomaco
aveva ripreso nei suoi rimbalzi pazzeschi, per tutte le buche in cui
andammo a finire, strada facendo, fino a giungere in vista di un molo
primitivo. Delle imbarcazioni ci attendevano e anche interi nuclei familiari
di una popolazione locale in festa.
Intorno a noi si levavano ora grida gioiose, s'improvvisavano balli.
Tutti cercavano di toccarci. Tutti volevano un abbraccio. Per fortuna
molte persone aiutarono a trasportare casse e registratore dalle Jeep
alle barche con l'apprensione ormai incontenibile di John.
Come Dio volle, stavamo ora navigando, verso Lambaréné.
Scivolavamo dolcemente, lasciandoci cullare questa volta sul grande fiume
Ogooué. La temperatura era mite. I miei occhi sbarrati per la
meraviglia della natura che ci circondava. I due giovani uomini si stavano
lasciando andare in balia all'esaltazione.
Eravamo così lontani da casa. Proiettati di colpo in un'altra
dimensione. Pensai ai miei compagni di scuola. Certamente si trovavano
in classe in quello stesso momento, mentre io, in Africa equatoriale,
a soli 17 anni ed i capelli, come sempre, spettinati al vento, sguardo
sperduto nello spazio e cuore in gola!
Nel nostro navigare lento sul fiume, altre imbarcazioni ci raggiunsero.
Delle piroghe cercarono di avvicinarci. Tutti volevano sapere se davvero
le casse contenevano medicinali. Domandavano i nostri nomi, e se li passavano
da persona a persona come un'eco sempre più storpiato, tutto ciò
continuando a navigare.
Una intera scorta d'onore ci stava accompagnando adesso, mentre nasceva
spontanea una festa sul fiume. Una festa improvvisata con canti e gioia
proprio vicino a noi, intorno a noi, mentre sull'altra sponda, il suono
dei tam tam, ci dava anch'esso il benvenuto scandendo parole sui tamburi.
Giungemmo dunque in molti sulle sponde di un'altra riva. Proprio in tanti
a Adolinanongo.
Mi parve che tutta l'Africa fosse presente insieme a noi, piombati chissà
da quale continente di bianchi, mentre l'unico uomo bianco che ci appariva
in lontananza, era un vecchio ossuto che già sventolava, in aria,
un capello da cacciatore. Il dottor Albert Schweitzer sicuramente!
Man mano che ci avvicinavamo vidi i suoi lunghissimi baffi rivolti in
su ed un sorriso triste. Era tutto vestito di bianco, come per apparire
meglio, come per non perdersi forse?
John e Sandro alzarono a loro volta le braccia in segno di saluto. "Ont
vous attendez avec impatience". Vi attendevamo con impazienza, disse
il vecchio quando riuscimmo a raggiungerlo.
I due uomini saltarono giù agili dalla nostra imbarcazione sbilanciandola,
senza badare a me, che per poco non caddi in acqua.
Il Dottor Schweitzer mi guardò con curiosità senza chiedere
nulla, mentre in me entrava tutta l'emozione del mondo.
"Ma fille" disse allora John. "E' voluta venire non c'è stato
verso lasciarla a casa. Voleva conoscerla".
"Je m'appelle Docteur" mi disse allora con una carezza. "Tutti qui mi
chiamano Docteur" e con grande semplicità si avviò lungo
una strada polverosa aspettandosi di essere seguito.
Guardai il registratore, interrogando John con lo sguardo. Anche lui
parve preoccupato vedendolo trasportare con tanta disinvoltura da un
paio d'indigeni incuriositi.
"Doucement. C'est une boite magique". Piano è una scatola magica!
Quante ore erano trascorse dalla nostra partenza dall'Italia? Quante
ore senza un pasto completo, senza potersi distendere nel sonno? Non
lo avrei mai saputo, ma sicuramente erano passati 10.000 km di distanza
e con un mezzo che, si può ora ben dire, di fortuna.
Barcollavamo. Le nostre gambe faticavano a ritrovare un equilibrio. Fui
dunque ben grata ai due giovani che mi avevano evitato il trasporto della
"scatola magica".
Molti indigeni, si erano allineati lungo la riva fino alla strada.
Sbarcavano così le casse dalle imbarcazioni, con un passamano
veloce i piedi nudi, sempre cantando, ritmando la musica con passi di
danza.
Amai subito i loro canti, teneri, semplici. Si sarebbero quasi dette
delle nenie per bambini.
Altissime palme costeggiavano il viale che stavamo percorrendo, sotto
le quali si potevano vedere delle capanne con tetti formati da foglie
essiccate. Viottoli appena accennati, le collegavano tra loro.
"Dov'è l'ospedale Docteur?" chiesi.
"Mais le voici" Eccolo rispose indicando una baraccopoli proprio davanti
a noi.
Sorrise da sotto i suoi baffi, la testa inclinata, guardandomi enigmatico.
L'avremmo potuto visitare più tardi ci disse ancora proseguendo
verso la propria dimora.
La sua era una ben semplice casa, ordinata nel suo insieme. Costruita
interamente di legno e dal tetto spiovente. Alte palme e banani la circondavano
ed era quasi interamente ricoperta dalle buganvillee. All'esterno, in
un patio, ci attendeva una tavola imbandita, intorno alla quale delle
donne indigene si stavano dando un gran da fare. Il nostro ospite ci
fece cenno di accomodarci su delle panche offrendo a tutti succhi di
frutta tropicale.
"Posso andare al..." chiesi.
All'interno della casa mi indicarono una porta. Mi guardai un attimo
intorno. Mi trovavo in un largo androne. Due sole le porte, quella di
un primitivo bagno dove l'acqua era raccolta in damigiane di terra cotta,
ed un'altra in fondo al locale.
Lungo il resto del corridoio delle lunghe tende scendevano dal soffitto
dividendo gli spazi in vari scomparti. Sembrava trovarsi in un'enorme
camerata con tanti letti allineati lungo una parete. Ero così
stanca che ne scelsi uno qualsiasi e mi sdraiai.
"Solo due minuti" pensavo per cadere d'incanto in un sonno profondo.
Passò molto tempo invece. Tacquero i canti, scomparve l'allegro
gridare e il cicaleccio delle donne. Si chetarono i galli dispettosi,
terminò ogni confusione.
Immersa com'ero nel sonno, le membra finalmente distese, sognai due ruvidi
baffi baciarmi la fronte e delle mani stanche coprirmi con un lenzuolo.
Mi risvegliai molte ore dopo, con il vociare nuovo dei bambini, le stridule
voci di giovani donne, il chicchirichì di un gallo noioso e il
dolce suono di un organo.
Bach! Qualcuno stava suonando Bach!
Mi guardai intorno e non vidi nessuno all'interno della casa. La musica
che si spandeva nell'aria proveniva da una porta chiusa in fondo al corridoio.
"La stanza del Docteur" pensai, e uscii in punta di piedi, non osando
disturbarlo.
Fuori, la tavola circondata da panche era nuovamente imbandita: nescafé,
succo di cocco, thé e tanta frutta tropicale.
"
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