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terza parte
Diario da Tanzania e Zanzibar

Un viaggio in est Africa

di Marco Pontoni

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I parchi del nord. La Tanzania è famosa anche per i parchi naturali, i più ricchi di grande fauna di tutta l'Africa. All'inizio non avevo programmato di visitarli, pensavo che per un turista che viaggia da solo fosse difficile e costoso. Invece i turisti solitari non sono affatto rari, qui; viaggiano senza accompagnatori anche le donne, e nessuna mi riferisce storie di molestie o altro del genere.
Il viaggio da Dar a Arusha non è scomodo come nelle descrizioni della guida. La strada è buona, e dobbiamo fermarci solo una volta ad aspettare che un camion impantanato in un guado riesca a tirarsi fuori. Poco prima di arrivare a destinazione, sulla destra, l'immagine fuggevole del Kilimanjaro.
Quando scendo ad Arusha, città sovrastata dal monte Meru, che un po' mi ricorda Trento, la mia città, con il suo Bondone incombente, non faccio in tempo a mettere il piede fuori dal pullman che già una piccola folla mi circonda per propormi ogni genere di camping-safari. E' questa la formula più economica per visitare i parchi: una jeep con due membri di equipaggio (un autista e un cuoco-tuttofare), più quattro o cinque turisti. Si dorme in tenda, si cucina quello che si è portato dalla città, o che si acquista in uno dei lodges che sorgono, un po' come oasi surreali, in mezzo alla savana. Prezzo base 50 dollari al giorno, una piccola fortuna considerato il tenore di vita locale, un affare per noi, se confrontato con le tariffe dei viaggi organizzati dall'Europa.
I camping-safari sono offerti da agenzie private, quasi tutte in mano agli asiatici. C'è un raid che parte domani, se trovano il quinto, sono tre ragazze francesi e una tedesca, mi pare una circostanza singolarmente fortunata. La notte dormo in una pensione squallida, senza luce né acqua corrente. Immaginate cosa significa un unico cesso in comune senza la fogna a trascinamento idrico: che al mattino la tazza è piena di merda fino all'orlo. Il mattino, terminate le presentazioni, salpiamo alla volta del Tarangire, a cui poi seguiranno il Manyara, il Ngorongoro e il Serengeti, sterminata pianura che s'inoltra nel Kenya (dove diventa Masai Mara).
I parchi sono, innanzitutto, un buon punto di osservazione dal quale valutare l'evolversi delle tecniche escogitate per far convivere uomo e ambiente. Dappertutto i Masai continuano ad aggirarsi con le loro lance e le loro coperte rosse, ma la caccia è regolamentata, e così l'accesso a certe zone, come ad esempio il fondo della caldera nel Ngorongoro (sulle pendici e sul bordo del vulcano si coltiva il caffè); gli animali, dal canto loro, non conoscono i confini e si vedono branchi di zebre o di gnu scorazzare liberamente anche nei territori "grigi" che separano un parco dall'altro in questo territorio geopardizzato. Non escludo possano creare qualche problema ai villaggetti che sorgono qui e là, sempre a qualche centinaio di metri dalla strada asfaltata, che attraversa le lande desolate che si aprono fuori Arusha, collegando gli ingressi dei vari parchi. Del resto i Masai sembrano assai più inclini allo scherzo che all'apprensione. Le donne assalgono i turisti nei pressi dei lodges per vendere loro le collanine; i maschi talvolta si piazzano sulla rotta dei fuoristrada e, quando il veicolo passa loro accanto, sollevano di scatto la coperta mostrando gli attributi alle macchine fotografiche dei turisti. Questa è l'atmosfera che si respira nei parchi; può darsi che gli etologi siano in grado di coglierne anche l'intrinseca solennità, ma a me pare più simile a quella buffa, giocosa, un po' infantile dei Luna park. Attenzione: non perché ci sia nulla di particolarmente falso o edulcorato nell'esperienza del safari. Anzi, chi cerca il contatto diretto con la natura può avere, con la formula del campeggio, il massimo di contatto che questa natura consente al visitatore medio senza metterne a repentaglio la vita. Una sera piantiamo le tende in un'area autorizzata nel Serengeti (solo uno spiazzo con un cartello nel mezzo e una buca per le immondizie), ci infiliamo nei sacchi a pelo, ma in capo a una mezz'ora un suono cavernoso, come proveniente da una cassa toracica di eccezionali dimensioni, ci ridesta. Le guide intimano di abbandonare le tende. Hanno l'aria di essere più spaventate di noi, e ci barrichiamo nella jeep. Dopo qualche minuto ci azzardiamo ad uscire, con le torce e i fucili; oltre il cerchio delle tende, dietro alla vegetazione bassa del bush, lampeggiano gli occhi di una leonessa. Se ne va con le buone, ma durante la notte tornerà e tornerà, a ricordarci che, nonostante tutto, qui l'uomo è per il momento ancora solo una specie fra le tante.
L'Africa qualunque...

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