I parchi del
nord. La Tanzania
è famosa anche per i parchi naturali, i più
ricchi di grande fauna di tutta l'Africa. All'inizio
non avevo programmato di visitarli, pensavo che per
un turista che viaggia da solo fosse difficile e costoso.
Invece
i turisti solitari non sono affatto rari, qui; viaggiano
senza accompagnatori anche le donne, e nessuna mi riferisce
storie di molestie o altro del genere.
Il viaggio da Dar a Arusha non è scomodo come
nelle descrizioni della guida. La strada è buona,
e dobbiamo fermarci solo una volta ad aspettare che
un camion impantanato in un guado riesca a tirarsi fuori.
Poco prima di arrivare a destinazione, sulla destra,
l'immagine fuggevole del Kilimanjaro.
Quando scendo ad Arusha, città sovrastata dal
monte Meru, che un po' mi ricorda Trento, la mia città,
con il suo Bondone incombente, non faccio in tempo a
mettere il piede fuori dal pullman che già una
piccola folla mi circonda per propormi ogni genere di
camping-safari. E' questa la formula più economica
per visitare i parchi: una jeep con due membri di equipaggio
(un autista e un cuoco-tuttofare), più quattro
o cinque turisti. Si dorme in tenda, si cucina quello
che si è portato dalla città, o che si
acquista in uno dei lodges che sorgono, un po' come
oasi surreali, in mezzo alla savana. Prezzo base 50
dollari al giorno, una piccola fortuna considerato il
tenore di vita locale, un affare per noi, se confrontato
con le tariffe dei viaggi organizzati dall'Europa.
I camping-safari sono offerti da agenzie private, quasi
tutte in mano agli asiatici. C'è un raid che
parte domani, se trovano il quinto, sono tre ragazze
francesi e una tedesca, mi pare una circostanza singolarmente
fortunata. La notte dormo in una pensione squallida,
senza luce né acqua corrente. Immaginate cosa
significa un unico cesso in comune senza la fogna a
trascinamento idrico: che al mattino la tazza è
piena di merda fino all'orlo. Il mattino, terminate
le presentazioni, salpiamo alla volta del Tarangire,
a cui poi seguiranno il Manyara, il Ngorongoro e il
Serengeti, sterminata pianura che s'inoltra nel Kenya
(dove diventa Masai Mara).
I parchi sono,
innanzitutto, un buon punto di osservazione
dal
quale valutare l'evolversi delle tecniche escogitate
per far convivere uomo e ambiente. Dappertutto i Masai
continuano ad aggirarsi con le loro lance e le loro
coperte rosse, ma la caccia è regolamentata,
e così l'accesso a certe zone, come ad esempio
il fondo della caldera nel Ngorongoro (sulle pendici
e sul bordo del vulcano si coltiva il caffè);
gli animali, dal canto loro, non conoscono i confini
e si vedono branchi di zebre o di gnu scorazzare liberamente
anche nei territori "grigi" che separano un parco dall'altro
in questo territorio geopardizzato. Non escludo possano
creare qualche problema ai villaggetti che sorgono qui
e là, sempre a qualche centinaio di metri dalla
strada asfaltata, che attraversa le lande desolate che
si aprono fuori Arusha, collegando gli ingressi dei
vari parchi. Del resto i Masai sembrano assai più
inclini allo scherzo che all'apprensione. Le donne assalgono
i turisti nei pressi dei lodges per vendere loro le
collanine; i maschi talvolta si piazzano sulla rotta
dei fuoristrada e, quando il veicolo passa loro accanto,
sollevano di scatto la coperta mostrando gli attributi
alle macchine fotografiche dei turisti. Questa è
l'atmosfera che si respira nei parchi; può darsi
che gli etologi siano in grado di coglierne anche l'intrinseca
solennità, ma a me pare più simile a quella
buffa, giocosa, un po' infantile dei Luna park. Attenzione:
non perché ci sia nulla di particolarmente falso
o edulcorato nell'esperienza del safari. Anzi, chi cerca
il contatto diretto con la natura può avere,
con la formula del campeggio, il massimo di contatto
che questa natura consente al visitatore medio senza
metterne a repentaglio la vita. Una sera piantiamo le
tende in un'area autorizzata nel Serengeti (solo uno
spiazzo con un cartello nel mezzo e una buca per le
immondizie), ci infiliamo nei sacchi a pelo, ma in capo
a una mezz'ora un suono cavernoso, come proveniente
da una cassa toracica di eccezionali dimensioni, ci
ridesta. Le guide intimano di abbandonare le tende.
Hanno l'aria di essere più spaventate di noi,
e ci barrichiamo nella jeep. Dopo qualche minuto ci
azzardiamo ad uscire, con le torce e i fucili; oltre
il cerchio delle tende, dietro alla vegetazione bassa
del bush, lampeggiano gli occhi di una leonessa. Se
ne va con le buone, ma durante la notte tornerà
e tornerà, a ricordarci che, nonostante tutto,
qui l'uomo è per il momento ancora solo una specie
fra le tante.
L'Africa qualunque...
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