L'Africa
qualunque Una strada di montagna si inerpica
da Mombo sulle montagne dell'Ujiambara. Si tratta di
una regione fertile, salubre, non malarica. La strada
è un dono della Germania (ovest, precisa il cartello),
il che ancora una volta mostra quanto fosse generica
l'ipotesi della self reliance per una nazione le cui
principali vie di comunicazione sono state costruite
tutte dagli stranieri (compresa la celeberrima Tazara,
la ferrovia della libertà che congiunge Dar alle
miniere di rame dello Zambia, opera cinese). Lushoto,
la capitale amministrativa dell'Ujiambara, è
un piccolo paese circondato dai boschi di conifere piantati
dai coloni europei, che conserva molte case di mattoni
in stile tedesco (il Tanganika fu colonia tedesca fino
alla fine della prima guerra mondiale). L'impatto è
straniante. Quest'Africa operosa, dove tutti i bambini
vanno a scuola, in linde divise azzurre, dove gli uomini
lavorano in segheria e le donne coltivano i campi, non
ha nulla a che fare con le immagini disastrose che le
televisioni in Italia sono solite trasmettere di questo
continente.
Lushoto è una cittadina pia, variegata in quanto
a tipi di culto. La parrocchia cattolica di proporzioni
considerevoli, sorge accanto a un campo da calcio in
terra battuta come in una qualunque cittadina italiana,
ed una chiesa dei Santi del Settimo Giorno schiera sotto
al suo porticato un coro volonteroso. Aria di paese,
ragazzi e ragazze a passeggio per la main street, signori
posati che chiacchierano davanti alle loro abitazioni,
la posta, la prigione, la banca.
Cerco in libreria qualche
testo di storia, ma scopro copie bisunte di vecchi romanzi
di Castaneda, e una biografia di Rudi Dutscke, in tedesco,
probabilmente dimenticate da qualche freak di passaggio.
Nel tramonto malinconico, simile per luce, clima e noia
a tanti altri della mia infanzia, mi scopro a pensare
che, in fin dei conti, non c'è ragione di credere
che questo paese non possa svilupparsi, sempre che riesca
a sopravvivere all'impatto con la democrazia parlamentare,
al revival mondiale dei conflitti etnici, alla cooperazione
"interessata", alla corruzione di tanti dirigenti governativi,
sempre che la stessa parola sviluppo abbia ancora un
senso e rappresenti qualcosa di desiderabile. Mi addormento
e faccio un sogno bizzarro. Che questo angolo di mondo
privo di linee elettriche e telefoniche decenti salti
a piè pari quella fase dello sviluppo "unta d'olio"
(così la definisce l'antropologo Alberto Salza)
di ferriere, inquinamento e conflitti sociali che ha
segnato in maniera indelebile la nostra storia, per
approdare direttamente all'era dei microchips. Campi
coltivati e intelligenza artificiale, migrazioni di
animali selvaggi e reti di computer che si parlano da
un capo all'altro della savana. Ipotesi stravagante,
visione che scompare alle prime luci dell'alba.
Ciò
che si impara nell'orto del vicino Che la
luce è preziosa, che senza di essa moltissime
cose banali, compreso leggere o scrivere, diventano
impossibili (in un film africano di pregevole fattura
si vedono infatti gli studenti dell'università,
la sera, radunarsi attorno ai rari lampioni, per poter
continuare a studiare quando nelle case è già
buio pesto). Che si vive senza televisione, ma nei pullman
di linea il grande schermo collegato al videoregistratore
c'è eccome. Che ad ogni angolo c'è un
chiosco per le bibite e della musica. Che se hai fame
basta chiedere, e qualcuno che t'invita a casa sua lo
troverai di sicuro, anche se il suo consumo annuo di
calorie equivale al tuo mensile (mi è successo
a Zanzibar, in uno sperduto villaggio della costa est
dove non avevano niente da vendermi, ma sono stato invitato
da un uomo nella sua capanna a mangiare cassava terrosa,
e non mi è stato chiesto nulla, ma proprio nulla,
in cambio). Che i più giovani pensano: Italia
uguale gran football, e farebbero carte false per emigrare.
Che sui giornali si dibatte più o meno delle
stesse cose per cui ci si infiamma anche nell'Italia
di Tangentopoli, ovvero quanto privatizzare, e quando,
e quanto in fretta, e che cosa invece lasciare gestire
allo Stato, e poi come migliorare l'efficienza dei servizi
sanitari, se è giusto o no che la chiesa si impicci
di affari quali la contraccezione. Si impara soprattutto
che si rinuncia più facilmente alle comodità
che non si conoscono che non a quelle alle quali si
è abituati, e in questa formula forse si cela
qualche grande verità sulla questione del sottosviluppo.
Nelle città, nelle località turistiche,
ovunque le culture vengono a confronto, si diffondono
modelli di consumo diversi rispetto a quelli tradizionali.
E' quella che i sociologi chiamano "la rivoluzione delle
aspettative crescenti". Resta da vedere se il mercato
sarà in grado di soddisfarle tutte. Qualcuno,
passata la sbornia iniziale, è già scettico.
"Sì, certo", mi dice uno studente di Dar, uno
che arriva da Mbeya, quasi al confine con lo Zambia,
perché in fondo le luci della città sono
sempre più brillanti, e lo dice con quel misto
di ironia e rassegnazione che hanno, ad ogni latitudine,
le persone che hanno già capito bene come girano
le cose, "oggi abbiamo la libertà di iniziativa,
ma me lo spieghi che cosa ce ne facciamo se non abbiamo,
non dico risparmi da investire, ma neanche di che comprarci
una Coca?".
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