Africa
 

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quarta parte
Diario da Tanzania e Zanzibar

Un viaggio in est Africa

di Marco Pontoni

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L'Africa qualunque Una strada di montagna si inerpica da Mombo sulle montagne dell'Ujiambara. Si tratta di una regione fertile, salubre, non malarica. La strada è un dono della Germania (ovest, precisa il cartello), il che ancora una volta mostra quanto fosse generica l'ipotesi della self reliance per una nazione le cui principali vie di comunicazione sono state costruite tutte dagli stranieri (compresa la celeberrima Tazara, la ferrovia della libertà che congiunge Dar alle miniere di rame dello Zambia, opera cinese). Lushoto, la capitale amministrativa dell'Ujiambara, è un piccolo paese circondato dai boschi di conifere piantati dai coloni europei, che conserva molte case di mattoni in stile tedesco (il Tanganika fu colonia tedesca fino alla fine della prima guerra mondiale). L'impatto è straniante. Quest'Africa operosa, dove tutti i bambini vanno a scuola, in linde divise azzurre, dove gli uomini lavorano in segheria e le donne coltivano i campi, non ha nulla a che fare con le immagini disastrose che le televisioni in Italia sono solite trasmettere di questo continente.
Lushoto è una cittadina pia, variegata in quanto a tipi di culto. La parrocchia cattolica di proporzioni considerevoli, sorge accanto a un campo da calcio in terra battuta come in una qualunque cittadina italiana, ed una chiesa dei Santi del Settimo Giorno schiera sotto al suo porticato un coro volonteroso. Aria di paese, ragazzi e ragazze a passeggio per la main street, signori posati che chiacchierano davanti alle loro abitazioni, la posta, la prigione, la banca.
Cerco in libreria qualche testo di storia, ma scopro copie bisunte di vecchi romanzi di Castaneda, e una biografia di Rudi Dutscke, in tedesco, probabilmente dimenticate da qualche freak di passaggio. Nel tramonto malinconico, simile per luce, clima e noia a tanti altri della mia infanzia, mi scopro a pensare che, in fin dei conti, non c'è ragione di credere che questo paese non possa svilupparsi, sempre che riesca a sopravvivere all'impatto con la democrazia parlamentare, al revival mondiale dei conflitti etnici, alla cooperazione "interessata", alla corruzione di tanti dirigenti governativi, sempre che la stessa parola sviluppo abbia ancora un senso e rappresenti qualcosa di desiderabile. Mi addormento e faccio un sogno bizzarro. Che questo angolo di mondo privo di linee elettriche e telefoniche decenti salti a piè pari quella fase dello sviluppo "unta d'olio" (così la definisce l'antropologo Alberto Salza) di ferriere, inquinamento e conflitti sociali che ha segnato in maniera indelebile la nostra storia, per approdare direttamente all'era dei microchips. Campi coltivati e intelligenza artificiale, migrazioni di animali selvaggi e reti di computer che si parlano da un capo all'altro della savana. Ipotesi stravagante, visione che scompare alle prime luci dell'alba.
Ciò che si impara nell'orto del vicino
Che la luce è preziosa, che senza di essa moltissime cose banali, compreso leggere o scrivere, diventano impossibili (in un film africano di pregevole fattura si vedono infatti gli studenti dell'università, la sera, radunarsi attorno ai rari lampioni, per poter continuare a studiare quando nelle case è già buio pesto). Che si vive senza televisione, ma nei pullman di linea il grande schermo collegato al videoregistratore c'è eccome. Che ad ogni angolo c'è un chiosco per le bibite e della musica. Che se hai fame basta chiedere, e qualcuno che t'invita a casa sua lo troverai di sicuro, anche se il suo consumo annuo di calorie equivale al tuo mensile (mi è successo a Zanzibar, in uno sperduto villaggio della costa est dove non avevano niente da vendermi, ma sono stato invitato da un uomo nella sua capanna a mangiare cassava terrosa, e non mi è stato chiesto nulla, ma proprio nulla, in cambio). Che i più giovani pensano: Italia uguale gran football, e farebbero carte false per emigrare. Che sui giornali si dibatte più o meno delle stesse cose per cui ci si infiamma anche nell'Italia di Tangentopoli, ovvero quanto privatizzare, e quando, e quanto in fretta, e che cosa invece lasciare gestire allo Stato, e poi come migliorare l'efficienza dei servizi sanitari, se è giusto o no che la chiesa si impicci di affari quali la contraccezione. Si impara soprattutto che si rinuncia più facilmente alle comodità che non si conoscono che non a quelle alle quali si è abituati, e in questa formula forse si cela qualche grande verità sulla questione del sottosviluppo.
Nelle città, nelle località turistiche, ovunque le culture vengono a confronto, si diffondono modelli di consumo diversi rispetto a quelli tradizionali. E' quella che i sociologi chiamano "la rivoluzione delle aspettative crescenti". Resta da vedere se il mercato sarà in grado di soddisfarle tutte. Qualcuno, passata la sbornia iniziale, è già scettico. "Sì, certo", mi dice uno studente di Dar, uno che arriva da Mbeya, quasi al confine con lo Zambia, perché in fondo le luci della città sono sempre più brillanti, e lo dice con quel misto di ironia e rassegnazione che hanno, ad ogni latitudine, le persone che hanno già capito bene come girano le cose, "oggi abbiamo la libertà di iniziativa, ma me lo spieghi che cosa ce ne facciamo se non abbiamo, non dico risparmi da investire, ma neanche di che comprarci una Coca?".